La maggior parte degli scienziati non apprezzano affatto Feyerabend. Invece un’élite di scienziati un po’ stravaganti lo stima molto. Tra questi c’era il paleontologo S.J. Gould: confidò a Feyerabend che Contro il metodo[1] lo aveva ispirato nel costruire assieme a N. Eldredge la sua teoria innovatrice degli “equilibri punteggiati” nell’evoluzione biologica. Feyerabend citava compiaciuto questo riconoscimento.
Il rigetto del pensiero di Feyerabend è dovuto al fatto che tanti scienziati oggi sono stati educati a pensare che la sola cosa che conti nella scienza sia il suo metodo. Invece a Feyerabend, che pure è stato allievo di Popper, delle scienze piacevano le scoperte. Quando nel 1992 tenne un seminario all’Università di Trento a cui partecipai, venne anche un ordinario di fisica teorica. In una discussione informale tra i partecipanti alla fine del seminario, il fisico disse a un certo punto che la fisica in fondo è ben poca cosa, che il suo solo merito è l’avere un certo metodo… Silenzio imbarazzato dei presenti.
L’importanza di Feyerabend non consiste nell’aver aperto un nuovo orizzonte di filosofia della scienza, piuttosto nell’aver chiuso forse definitivamente il filone più rigoglioso del pensiero epistemologico moderno. Il filone austro-anglo-americano che, a partire da Mach, percorre un secolo intero attraverso il Circolo di Vienna, Popper, Quine, Kuhn, Lakatos… La biografia di Feyerabend – austriaco trapiantato in Inghilterra e poi in California – sembra riassumere lo spostamento spazio-temporale di questo movimento, nato in Austria e adottato dai paesi anglofoni. Feyerabend così come Occam chiuse nominalisticamente la stagione scolastica e Hume chiuse scetticamente quella dell’empirismo britannico. Questo glorioso filone di pensiero è stato sempre assillato dalla necessità della demarcazione. Con Feyerabend questo bisogno si estingue: anything goes, tutto va bene.
1.
La demarcazione che interessava il Circolo di Vienna era quella tra enunciati significanti ed enunciati non significanti. Per i positivisti logici un enunciato è significante se e solo se è verificabile: quindi il significato di una proposizione è il metodo della sua verifica empirica. In questa prospettiva, tutte le proposizioni metafisiche non sono false, ma insignificanti. Tutto il nostro sapere è induttivo, e quanto alle proposizioni logico-matematiche, esse sono necessariamente vere nella misura in cui sono tautologie, “a = a”. Il guaio però è che in questo mare della non-significanza viene buttata non solo l’acqua sporca della metafisica, ma anche tutti quei bei bambini come gli enunciati etici, estetici, espressivi…
Per Karl Popper invece la demarcazione che conta non è tra enunciati significanti e non-significanti, ma tra enunciati teorici scientifici e non scientifici. Ovvero, tutto ciò che è metafisica, estetica, etica, filosofia… è significante ma non è scientifico. Anzi, la metafisica costituisce il “terreno fertile” per la scienza: alcune teorie nascono come metafisiche, cioè non falsificabili e dunque non scientifiche, e diventano scientifiche con il tempo (il caso più celebre è quello dell’atomismo). Per Popper una proposizione è scientifica nella misura in cui può essere falsificata con precisione: insomma, la scienza va avanti per prove ed errori. Le proposizioni della psicoanalisi – una dottrina che Popper prende particolarmente di mira – sono molto significative ma non sono scientifiche perché è impossibile confutarle. Ovvero, il suo “contenuto empirico” è molto povero perché ha ben pochi asserti-base che siano potenzialmente in grado di essere confutati. Il sapere scientifico non si costruisce insomma per induzione, come pensano i neopositivisti, ma per selezione grazie alla sperimentazione falsificante. Questo significa che una proposizione scientifica – che Popper chiama “congettura” – non può mai essere definitivamente verificata, ma può essere solo corroborata. Le teorie scientifiche affermate sono quelle più corroborate, ovvero che hanno resistito ai tentativi di falsificarle finora più ingegnosi. Questa è ormai la vulgata filosofica ufficiale sulla scienza in Italia, quella che si insegna nei licei.
Benché in Popper si tratti comunque di discriminare teorie – le scientifiche da quelle non scientifiche – viene rotta la continuità non-problematica tra esperienza e teoria e si afferma che il ricorso all’esperienza ha valore all’interno di un dibattito tra teorie. L’esperienza cessa di essere origine e garanzia delle teorie scientifiche, essa viene sempre dopo la teoria e svolge una funzione di filtraggio in una divergenza. Per Popper, “la ricerca scientifica comincia e finisce con problemi”.
2.
Hegel – ovvero, l’approccio essenzialmente storico al pensiero – cacciato dalla porta della razionalità sia dal neopositivismo sia dal razionalismo critico di Popper, rientra dalla finestra soprattutto attraverso Thomas Kuhn. Egli non a caso si è formato con Alexandre Koyré, studioso di Hegel. Dopo Kuhn, i filosofi della scienza abbandoneranno sempre più le argomentazioni a priori e sempre più si riferiranno alla concreta storia delle scienze europee. Allora, il falsificazionismo viene storicamente falsificato. E la demarcazione che diventa quindi importante è quella tra scienza normale e scienza straordinaria.
Kuhn nota che, di fatto, lo spirito critico, essenziale per Popper al “gioco” della scienza, non è indispensabile nelle scienze. Questo perché anche le teorie più potenti e affermate sono ampiamente confutate da una miriade di fatti e osservazioni imbarazzanti. Se il falsificazionismo venisse seguito sul serio nel lavoro scientifico, nessuna teoria, soprattutto ai suoi inizi, dovrebbe essere accettata, perché di fatto ognuna è falsificata da un numero più o meno ampio di fatti. Nelle fasi che Kuhn chiama “scienza normale”, e che caratterizzano la stragrande parte del lavoro degli scienziati, il lavoro scientifico consiste nel cercare di risolvere puzzle scientifici, cioè di far quadrare fatti recalcitranti nella teoria accettata, che a sua volta rientra in un dato paradigma scientifico. Ecco l’invenzione sicuramente più fortunata della moderna filosofia della scienza: quella di paradigma, che ormai tutti usiamo. La storia della scienza diventa un processo discontinuo, di salti da un paradigma all’altro, viene spezzata l’immagine rassicurante di un sapere che progredisce in modo continuo grazie a un paziente accumulo di conoscenze. Scientia facit saltus.
Ogni nuova teoria, proprio in quanto nuova, non avendo avuto il tempo di normalizzarsi nel corso di un prolungato dibattito, emerge in un mare di fenomeni che la confutano. Così il lavoro da formica degli “scienziati normali” – che accettano un dato paradigma scientifico in modo acritico – rinsalda quel paradigma. E si rinsalda perché i “normali” elaborano una serie di sotto-teorie di puntello, scoprendo o sottolineando fatti nuovi che vengono a confermare il paradigma. Il lavoro di soluzione dei puzzle – cioè di irregolarità che, se persistono, possono confutare la teoria – rafforza un dato paradigma scientifico in quanto i suoi sostenitori non si arrendono alla confutazione che certi fatti infliggono a questo paradigma. Come dirà poi Feyerabend, il sostenitore di una teoria, soprattutto ai suoi inizi, deve essere tenace, e la tenacia è l’inverso dello spirito critico. A parte i periodi chiamati da Kuhn di “scienza straordinaria”, cioè di conflitto esplicito tra paradigmi scientifici in quanto tali – e di interrogazione su che cosa sia scientifico e che cosa no tra gli scienziati stessi – la maggior parte dei ricercatori accetta di operare all’interno del paradigma dominante nel proprio settore. Il criterio è: sempre meglio una teoria falsa che nessuna teoria. Questa è la faccia conservatrice della scienza, che però consente il progresso della conoscenza.
3.
La mancanza di spazio ci obbliga a saltare i contributi decisivi di Duhem, Poincaré, Michael Polanyi, Quine e Lakatos. Ci limitiamo qui a riassumere l’immagine dell’attività scientifica che emerge dal dibattito epistemologico del xx secolo.
Rompendo sempre più con l’idea rappresentativa del sapere come sistema di Bilden, immagini sempre più fedeli del mondo (lo “specchio della natura” di cui parla Rorty), si afferma un’immagine delle teorie scientifiche come organismi significanti che si comportano in analogia alle specie animali. Alla metafora speculare e contemplativa si sostituisce ormai la metafora biologica – cosa che avviene anche in altri campi della cultura (si pensi alla biopolitica). Questo successo del riferimento biologico – sapere è solo una parte del vivere – produrrà tra l’altro la teoria dei di Richard Dawkins, ovvero un approccio bio-simile ai processi culturali. Meme (da mimesis), equivalente spirituale del gene, è ormai un altro termine di uso comune. Teorie e paradigmi, come i genotipi, evolvono per mutazione e selezione. Le mutazioni non vengono da qualche nuova esperienza ma dall’emergere di una nuova idea, la quale in un certo senso cade dal cielo e prima di tutto esercita un’attrazione seduttiva sulle menti scientifiche. Le nuove idee, diceva Deleuze, sono la festa inaugurale della ricerca scientifica. Ma teorie e paradigmi si affermano grazie alla loro capacità di superare varie prove guastafeste inflitte dall’ambiente, che nella scienza sono i dati empirici di cui ogni teoria deve dar conto. Le teorie, proprio come gli organismi viventi, sono quindi conservative, il che non toglie che esse possano essere soppiantate da altre teorie che si riproducono di più nelle menti degli scienziati, l’environment delle idee.
Max Planck sosteneva che raramente una nuova teoria si afferma perché convince gli scienziati con argomentazioni, dato che costoro possono trovare sempre contro-esempi: semplicemente gli scienziati anziani muoiono o vanno in pensione e i giovani, formatisi alla nuova teoria, prendono il loro posto. C’è una demografia della verità scientifica. Ora, tutto questo va a pennello con la filosofia più influente nel xx secolo, il pragmatismo, che discende più o meno dal verum factum est di Vico. La scienza non è mai disincarnata, fa corpo con i processi umani – molto umani – di persuasione retorica, di diffusione, di riproduzione e di egemonia. Insomma, conoscere il mondo è dominarlo e sopravviverci. Da un’immagine della teoria come rappresentazione del mondo, si passa a un’immagine strumentalista, e direi survivalist, della teoria.
Per cui anche l’inverso può essere detto: che la vita è essa stessa una forma di auto-conoscenza progressiva del mondo.
Tutte le teorie oggi condivise dalla comunità scientifica sono falsificate, ovvero tutte sono imperfette, si tratta quindi non tanto di scegliere tra teorie vere e false, ma tra teorie più o meno imperfette. Del resto, anche le specie animali sono tutte imperfette,[2] ma certe varianti si impongono comunque rispetto ad altre come meno inadatte.
Aggiungiamo anche che ogni teoria-paradigma, per affermarsi, deve essere dotata di due qualità che non sempre si accordano: forza seduttiva e forza esplicativa. Queste due corrispondono alla doppia fitness degli organismi biologici: da una parte riuscire a sedurre di più l’altro sesso (se la riproduzione è sessuata), dall’altra sfuggire ai predatori e agguantare le prede. Per esempio, i biologi non sono riusciti a trovare una spiegazione per le corna del cervo maschio: più sono grandi e intricate, più seducono le femmine, anche se comportano un handicap per l’animale. Le corna, a parte questa efficacia erotica, non hanno alcun altro senso adattativo. Gli organismi sembrano distolti dalla loro funzione puramente riproduttiva e irretiti in una pura logica erotica.
Anche le teorie più forti – come la relatività o la meccanica quantistica – si sono imposte grazie alla seduzione intellettuale che esse esercitano. Le grandi teorie scientifiche sono belle. E occorre che risultino tali: è la famosa analisi che Feyerabend fa della “propaganda” di Galileo alle sue teorie. Gli scienziati confessano che certe ipotesi, le quali pure potrebbero essere plausibili, vengono scartate subito perché ci si dice: “Dio non può essere così volgare!”. La natura deve avere una sua eleganza che la teorizzazione coglie. Ovviamente, se la seduzione intellettuale di una teoria prevale sulla forza esplicativa in modo schiacciante, la teoria perde di persuasività scientifica. È quel che, per esempio, si dice oggi del marxismo e della psicoanalisi, teorie molto seduttive sul piano intellettuale (“geniali”) ma poco esplicative, quindi non scientifiche. In cosmologia, per decenni ha esercitato un grande fascino la teoria delle corde (string theory) che descriveva l’universo come un’armonia musicale, finché non ci si è resi conto che la forza esplicativa di questa sirena era molto bassa. All’inverso, una teoria solo esplicativa ma che manca di attrattività intellettuale o estetica tenderà a essere ignorata. Per esempio, la riluttanza di Galileo ad accettare le ellissi orbitali di Keplero si spiega solo col fatto che al primo le ellissi apparivano meno “belle” dei cerchi.[3] Persino oggi certe teorie sociobiologiche sulle differenze genetiche tra gli esseri umani non vengono prese in considerazione perché spesso conducono a conclusioni razziste, e il razzismo è “brutto”.
Non c’è quindi veramente una demarcazione netta tra teorie scientifiche e non scientifiche. È una questione di grado: più una teoria è seduttiva e poco esplicativa, più si allontana dalla rispettabilità scientifica. Ma in compenso può acquisire una grande rispettabilità filosofica, per esempio. Così Freud, per esempio, non si studia più nelle facoltà di psicologia o di psichiatria, ma in quelle di filosofia o nei corsi di complementary literature.
4.
Se la sopravvivenza di una teoria-paradigma, la sua conservazione, è parte integrante del processo della conoscenza, allora tutto ciò che appare semplice immondizia della conoscenza – la struttura accademica delle comunità scientifiche, le strategie di finanziamento dei progetti di ricerca, la pressione ambientale delle ideologie che circolano, la cocciuta tenacia di cui abbiamo parlato –diventa invece parte integrante del processo di formazione della conoscenza. Ed è esattamente quel che ha voluto dirci Feyerabend. Egli non sostiene, come credono molti, che la scienza è politica, ma che ci sono delle politiche della scienza che entrano più o meno in collusione, o in collisione, con l’ambiente sociale e politico in cui la scienza stessa si sviluppa. Da qui il suo programma politico di separare lo Stato e la scienza, così come sono state separate lo Stato e le Chiese. Una separazione che, però, a mio avviso, si è già consumata, dato che tanti finanziamenti alla ricerca vengono da industrie private.
Feyerabend respinge il concetto di scienza normale di Kuhn perché ha un’idea squisitamente aristocratica del lavoro scientifico. La scienza progredisce non perfezionando un paradigma, ma saltando e infrangendo i presupposti dei paradigmi dominanti. È strano che si descriva Feyerabend come un uomo anti-scienza: al contrario, egli ci restituisce un’immagine eroica della scienza, che “progredisce” come le arti.[4] Quel che gli interessa è la creatività scientifica, non quel lavoro di routine a cui spesso oggi si riduce la ricerca scientifica. Ormai la scienza è un’industria che coinvolge milioni di scienziati-lavoratori. Siamo lontani dalle grandi rivoluzioni scientifiche del secolo scorso, opera di una ristretta élite di geniali cultori.
Feyerabend crede insomma nel progresso scientifico, ma constata che esso procede inventando metodi di volta in volta. I metodi sono come gli strumenti che uno scultore usa per produrre una statua – ma quel che conta, alla fine, è la statua. Il fatto che Newton presumesse una misteriosa attrazione a distanza tra sole e pianeti non impedì ai newtoniani di prevalere sulla fisica cartesiana, che sembrava spiegare meglio le cose. Il fatto che molti fenomeni in fisica quantistica presumano che la conoscenza di un fenomeno lo modifichi o lo determini (come nel paradosso del gatto di Schrödinger) infrange addirittura il principio del realismo della scienza, ovvero, la scienza sembra accettare la magia. Il fatto che Einstein non mancasse di far rilevare quest’enorme infrazione non ha impedito alla teoria dei quanti di prevalere come fisica fondamentale del nostro tempo. L’importante allora è che una teoria preveda, non tanto che spieghi adeguatamente. Anche se nella scienza c’è sempre una tensione tra forza predittiva e intelligibilità esplicativa. Accade così che una teoria come il darwinismo pur non avendo alcuna forza predittiva (nessuno sa quali nuovi organismi verranno fuori) risulta molto potente come modello capace di rendere intelligibile la storia della vita. Invece la teoria quantistica, lo abbiamo detto, ha molti buchi esplicativi ma una straordinaria capacità predittiva.
Si può notare, anche nelle scienze umane, quel che Feyerabend ha denunciato come deformazione metodologista. Se si partecipa a molti congressi di psicologi sociali o di sociologi si resta allibiti: quel che conta per la maggior parte di loro è mostrare il metodo raffinato seguito per condurre una certa indagine, seppure su temi assolutamente irrilevanti. Non conta più quel che si vuole capire, conta solo la metodologia… Ma è come usare i cannoni più aggiornati per uccidere una mosca. Anche nelle scienze umane, insomma, il metodo dovrebbe essere al servizio dell’intelligibilità dell’oggetto di ricerca. L’importante è capire il mondo, e di volta in volta si possono usare strumenti diversi.
Ma allora perché tanti scienziati pensano invece che quel che più importi sia il metodo? A mio parere, perché le vere scoperte sono rare, e quel che la maggior parte degli scienziati produce si rivelerà trascurabile: non tutti hanno fortuna o genio. Ciò che determina il prestigio accademico della maggior parte degli scienziati, quindi, non è l’aver prodotto nuove teorie o scoperte, ma il loro aver sempre seguito il metodo corretto. Mettere in primo piano la metodologia è una protezione della propria mediocrità. E infatti spesso i cavilli metodologici servono a tarpare la creatività di colleghi “scorretti”.
Quindi, Feyerabend non ha della scienza l’immagine kuhniana di legioni di “normali” che cercano di risolvere puzzle all’interno in un paradigma, ma quella rivoluzionaria di scienziati che non si curano delle “buone forme”. Un ideale di scienza in rivoluzione permanente, ma una rivoluzione fatta da creativi.
Feyerabend va letto anche con ironia feyerabendiana.
5.
Tutte le affermazioni positive di Feyerabend, persona dotata di grande senso dell’umorismo e del gusto del paradosso, vanno prese come impertinenti negazioni di affermazioni razionaliste. Insomma, il senso delle sue affermazioni è quasi sempre decostruttivo. Per esempio, il “tutto va bene”, come lui stesso ha detto, va preso come l’esclamazione conclusiva a cui giungerà il razionalista una volta esaminata con cura la storia della scienza. Il che lascia presupporre che, in fondo, non è vero che tutto vada bene, anche se Feyerabend non dice mai che cosa vada male. La sua idea di fondo è che la pretesa della filosofia di indicarci ciò che va bene (scienza, verità) e ciò che va male (miti, religioni, metafisica) sia illusoria: è la storia, ovvero la vita, a fare la selezione. Il suo anarchismo è insomma una reductio ad absurdum del razionalismo, un po’ come i paradossi di Zenone.
Qualcosa di analogo va detto sulla sua idea secondo cui le teorie scientifiche sono in gran parte tra loro incommensurabili. Quest’idea di incommensurabilità avvicina molto Feyerabend a Foucault – è Feyerabend il Foucault della scienza? – e in effetti tra i due c’era una reciproca stima, malgrado le loro matrici culturali molto diverse.
Anche sull’incommensurabilità fioriscono pregiudizi. Sostenere che due teorie sono incommensurabili non significa affatto dire che c’è incomunicabilità tra i loro sostenitori, né che è possibile confrontarle… Quando in geometria diciamo che la diagonale di un quadrato è incommensurabile rispetto alla lunghezza dei lati, non vogliamo dire che non possiamo applicare alle due grandezze la stessa unità di misura! Vogliamo dire solo che è impossibile trovare un segmento tanto piccolo da entrare un numero intero di volte in entrambe le lunghezze. Insomma, non è possibile tradurre completamente due grandezze incommensurabili l’una nell’altra, ci sarà sempre un resto, un in più o un in meno che rende impossibile ridurle a multipli di alcuni concetti invarianti. Questo resto non evacuabile è alla base dei malintesi profondi quando si discute anche tra scienziati: possiamo usare le stesse parole, ma di fatto il senso che diamo a queste parole non è sovrapponibile, ragion per cui non si giungerà mai a un’intesa. Insomma, in una controversia il significato delle parole che usiamo non è fissato una volta per sempre, ma viene via via negoziato e slitta continuamente. Come si vede, tutto ciò scardina ogni filosofia del dialogo e della comunicazione universali. I nostri dibattiti, anche filosofici, sono sempre esposti alle diverse implicazioni che i nostri concetti hanno per ciascuno di noi. La comunicazione tra umani si fa non malgrado il malinteso, ma grazie a esso.
Va detto che teorie e paradigmi scientifici sono tra loro incommensurabili da un punto di vista realista. Se si abbandona il realismo, l’incommensurabilità viene a cadere.
Da qui l’idea di un radicale pluralismo. È questo che interessa a Feyerabend: una visione polifonica non solo della scienza, ma della cultura in generale. E quindi dell’Essere (Being) in generale. Quella non-coincidenza ricorsiva che assicura l’incommensurabilità è la linfa del progresso culturale.
È la fine di una chiave unica per interpretare la storia. Questo avviene persino nelle scienze dell’evoluzione. Anche se il darwinismo resta la principale teoria biologica della storia della vita, molti tendono a un darwinismo debole, o addirittura a confutare il darwinismo (come hanno cercato di fare Fodor e Piattelli Palmarini)[5] sulla base dell’evidenza che non tutto nella vita è adattativo. Come abbiamo visto nel caso delle corna del cervo. Ovvero, non c’è un principio unico che regoli la storia della vita, nemmeno il principio darwiniano della mutazione-selezione. E così, anche nella storia umana, non c’è un solo impulso che la spieghi, come sarebbe la lotta di classe secondo il marxismo, o l’anelito verso la libertà per il liberalismo, o l’adattamento agli ambienti, o la volontà di potenza ecc. La storia, sia della vita sia delle culture, è caotica, non esprime un principio unico. E il risultato è una fondamentale imprevedibilità del mondo della vita. E quindi anche della vita scientifica.
Feyerabend denuncia, insomma, il furor razionalista che tende a semplificare troppo il mondo, perché a suo parere l’Essere (Being) è abbondanza, illimitata ricchezza.[6] Contro un supposto “pensiero unico” – nella scienza come in politica – egli oppone il suo “principio di proliferazione”: ci devono essere più teorie possibili, anche se bislacche. Al pluralismo democratico deve associarsi il pluralismo epistemico. Del resto, il pluralismo è già insito nella varietà multicolore dei pensatori di cui si dice debitore – Aristotele, Hegel, Marx, Kierkegaard, Mill, Wittgenstein. Il Tutto è la testa di turco di Feyerabend: il suo mondo è fatto di parti che non si sommano. La pluralità irriducibile delle teorie e dei paradigmi rimanda a una pluralità stessa dell’Essere, a una molteplicità di mondi.
Questo pluralismo porta a confutare l’idea di “unità del sapere”, ragion per cui molti filosofi parlano non di Scienza ma delle scienze, al plurale. Sulla sua scia, anche la cosiddetta Stanford School di filosofia e Ian Hacking partono da questa pluralità per affermare ontologicamente una pluralità dei mondi, contestando quindi il sostanziale riduzionismo che ancora permea la visione che la maggior parte degli scienziati ha del sapere scientifico.
Da qui il suo criterio, anch’esso provocatorio, dell’“opportunismo senza scrupoli”. Ovvero, quando uno scienziato sente che qualcosa è vero, può ricorrere alle argomentazioni più persuasive e più opportune, anche ai limiti della bugia. Mi chiedo se Feyerabend non sia stato impressionato dal film Touch of Evil (1958) di O. Welles: l’infernale commissario Quinlan – che fabbrica “prove” per accusare quelli che sa essere colpevoli – potrebbe aver fatto da modello al suo opportunismo della verità.
Del resto i fisici di oggi sono tutti opportunisti in senso feyerabendiano, dal momento che fanno riferimento a due teorie tra loro incongruenti: la relatività e la meccanica quantistica. Alcuni cercano invano di trovare una sintesi tra queste, ma di fatto in fisica entrambe vengono utilizzate a seconda dei casi. Appunto, tutto va bene, purché funzioni.
La sua immagine ontologica del mondo è quella di un caos irriducibile. Col sapere la specie Homo tende continuamente a semplificare l’estrema complessità del mondo per sopravviverci – allontanando così il sapere dalla realtà. Da qui la doppia vocazione contraddittoria della conoscenza: da una parte rendere sensibile l’eccessiva abbondanza degli enti (accostarsi al reale); dall’altra ridurre questa abbondanza (privilegiare la sopravvivenza). Il nostro bisogno di sopravvivenza è certamente la molla della conoscenza, ma anche la fonte della nostra volontà d’ignoranza.
Scrive Feyerabend: “‘Non è possibile – chiede Kierkegaard – che la mia attività di osservatore oggettivo [critico-razionale] della natura indebolisca il mio sforzo di essere umano?’ Sospetto che la risposta a questa domanda debba essere affermativa”.[7] Per Feyerabend questo sforzo è più importante dell’oggettività, anche se lo sforzo di essere oggettivi è anch’esso umano.
Questo ci fa capire il motivo di certe proposte provocatorie di Feyerabend che hanno fatto pensare alla posa per épater, come quando raccomanda di stornare fondi dalla ricerca delle particelle elementari per indirizzarli all’astrologia, all’omeopatia, alla teologia… Quel che appare sfida donchisciottesca all’establishment scientifico è in realtà un corollario del proprio pluralismo: la scienza ha prodotto tanto perché i programmi di ricerca hanno proliferato. Ovvero, Feyerabend vorrebbe applicare alla scienza lo stesso criterio della diversificazione che ormai si è imposto nella politica ecologica: la grande diversità delle specie animali e vegetali, così come la grande diversità di lingue, culture, credenze, tecniche è di per sé un valore. La differenza è ricchezza. Un mondo omologato uccide la creatività sia biologica sia culturale. Per questa ragione nei paesi occidentali ci si guarda bene, oggi, dal distruggere coltivazioni arcaiche, forme di vita tradizionali, fossili culturali… sulla base del principio che più una nazione è culturalmente e biologicamente diversificata, più sa adattarsi a situazioni nuove e più avrà scatti creativi. La stessa eccellenza degli usa negli ultimi due secoli viene spiegata con il suo essere un paese composito, costituito da diversissime ondate migratorie e con tante religioni. Così, in una catastrofe naturale o nucleare, certe forme arcaiche di vita potrebbero dimostrarsi molto utili all’umanità per sopravvivere.
È strano che tuttora Feyerabend venga visto come un black block della filosofia della scienza, dato che in fondo il pluralismo da lui promosso impregna in maniera sempre maggiore le società più avanzate sul piano economico e culturale. Il nostro mondo diventa sempre più feyerabendiano senza che ce ne rendiamo conto.
Infine, il mio percorso personale di riflessione sulla scienza. Penso che Feyerabend, chiudendo la lunga tradizione delle filosofie del metodo, da Descartes a Popper, abbia contribuito a superare le due visioni sempre opposte: una visione incentrata sull’oggettività contemplativa del sapere e un’altra che, da Nietzsche in poi, ha fatto del sapere uno strumento umano, molto umano, per la potenza, il dominio e la sopravvivenza. Credo che entrambi gli approcci colgano qualcosa di vero. Penso che il sapere scientifico di oggi non sia uno specchio dell’essere ma il risultato di tutte le domande che gli esseri umani hanno posto alla Natura nel corso dei secoli, e a cui costei ha risposto. Il sapere è il risultato di un gioco con la Natura. Questo gioco si basa sul lasciar parlare la Natura, anche se attraverso protocolli approntati a priori. La scienza mette la Natura in libertà vigilata, la “coatta”, ma le lascia libertà sufficiente per rispondere come vuole o rispondere picche. (E sappiamo bene che la Natura spesso risponde picche. Per esempio, non ha mai veramente risposto alla domanda: “La luce è onde o particelle?”.) Il vantaggio del sapere scientifico, rispetto a tutti gli altri discorsi che interrogano l’essere, è questo lasciar parlare, a un certo punto, la Natura. Oltre la scienza, tanti altri “giochi” cercano la verità. Ma la scienza, facendo rispondere la Natura a certi quesiti referendari, è il gioco più vicino all’attuale democrazia pluralista e liberale.
Ringrazio Stefano Gattei per le sue sollecitazioni riguardo questo articolo.
E ringrazio Grazia Borrini-Feyerabend per il suo sostegno.
[1] P.K. Feyerabend, Contro il metodo. Abbozzo di una teoria anarchica della conoscenza, trad. di L. Sosio, Feltrinelli, Milano 1981.
[2] In contrasto con l’immagine convenzionale delle forme di vita come sempre perfettamente adattate all’ambiente, si veda T. Pievani, Imperfezione. Una storia naturale, Raffaello Cortina, Milano 2019.
[3] E. Panofsky, Galileo critico delle arti, trad. a cura di M.C. Mazzi, Abscondita, Milano 2008.
[4] P.K. Feyerabend, Scienza come arte (1984), trad. di L. Sosio, Laterza, Bari 1984.
[5] J. Fodor e M. Piattelli Palmarini, Gli errori di Darwin (2010), trad. di V.B. Sala, Feltrinelli, Milano 2010.
[6] P.K. Feyerabend, Conquista dell’abbondanza. Storia dello scontro tra l’astrazione e la ricchezza dell’Essere, trad. di P. Adamo, Raffaello Cortina, Milano 2002.
[7] P.K. Feyerabend, Against Method (1975), Verso, London-New York 19933. p. 154; Contro il metodo. Abbozzo di una teoria anarchica della conoscenza, trad. di L. Sosio, Feltrinelli, Milano 2024.
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