Pensare politicamente

Freud, e il godimento della guerra

Nella Grecia antica, il giorno dopo che si era svolta una battaglia importante, si organizzava un vero e proprio turismo dell’orrore. Delle comitive si recavano sul campo di battaglia rimasto com’era dopo la sua conclusione: sangue ancora fresco, corpi straziati, gli avvoltoi sui cadaveri, lo spettrale silenzio dopo la carneficina. Si andava a contemplare l’evento. Era proprio lo spettacolo atroce a far godere i voyeur del massacro. E che farebbe godere tanti anche oggi, se una certa decenza e rispetto per la morte non ci vietasse di goderne.

Non lo si vuol dire, ma una delle ragioni per cui le guerre non cessano mai di esserci, è che il conflitto cruento fa godere. Ancor oggi, la guerra in Ucraina. Le città distrutte viste in tv sono atroci, eppure ho sentito qualche voce dire “quanto darei per andarci!”

 

1

Nel 1931 l’Istituto Internazionale per la Cooperazione Intellettuale, espressione della Società delle Nazioni, pensò di chiedere all’uomo considerato il più intelligente al mondo, Albert Einstein, di trovare una risposta alla domanda “Perché la guerra?”
Nella speranza sottintesa che un genio come lui scoprisse il modo di evitarla per sempre. Einstein a sua volta propose Freud – che aveva incontrato una sola volta di persona, a Berlino – per intavolare una discussione con lui su questo tema. La risposta di Freud ad Einstein è un breve testo “Perché la guerra?”[1], pubblicato nel 1933.

La posizione di Freud sulla fatalità della guerra (das Verhängnis des Krieges) appare solo blandamente pessimistica. Oggi, diremmo, sulla scia di Gramsci, che in lui il pessimismo della ragione – “non c’è alcuna ricetta per evitare per sempre la guerra” – non esclude un certo ottimismo della volontà. Nel solco della tradizione illuminista, Freud conclude dicendo che tutto ciò che favorisce lo sviluppo culturale (Kulturentwicklung[2]) lavora anche contro la guerra. Ma, in questo caso, l’ottimismo illuminista di Freud appare una concessione alla speranza in una visione che nel fondo non è affatto ottimista. E difatti qualche pagina prima aveva liquidato come illusorio l’ideale bolscevico di un mondo pacificato da un’universale fraternità socialista. (Poi sarebbe accaduto che paesi socialisti si sarebbero fatta la guerra: Unione Sovietica versus Cina, Vietnam versus Cambogia, Cina versus Vietnam. Freud sapeva che il messaggio pacifico del Vangelo non aveva affatto impedito guerre funeste tra cristiani nel corso dei secoli.)

Freud parte da una visione storica precisa: che all’origine di ogni diritto (Recht) c’è la violenza (Gewalt). “Il diritto era in origine violenza bruta”[3]. Ovvero, il diritto non nasce come un modo per imbrigliare e inibire la violenza di certi individui – i più forti, i più potenti, i più aggressivi, i più avidi. Secondo lui il diritto stesso è violenza, anche se ci appare invece come una barriera alla violenza: esso sorge come risposta dei più alla violenza dei pochi, ma il diritto “è ancora sempre violenza, pronta a rivolgersi contro chiunque le si opponga, operante con gli stessi mezzi, intenta a perseguire gli stessi fini”[4]. Il diritto è la violenza non di singoli, ma di una comunità (Gemeinschaft) intera. E, diremo nella scia di Freud, nella misura in cui ogni guerra è un conflitto tra due comunità, la guerra è sempre un fatto di diritto. La violenza bellica non è una trasgressione del diritto, esprime il diritto delle società alla violenza. Ogni diritto è socializzazione della violenza.

Come si vede, Freud rovescia completamente la posizione rousseauiana, che vede l’uomo originario come essenzialmente buono. È ben più prossimo alla visione di Hobbes dell’homo homini lupus, l’essere umano è lupo per l’altro essere umano. Tutto il dramma storico dell’umanità, per lui, è il processo di auto-addomesticazione di un lupo. Un’auto-addomesticazione nei cui confronti Freud stesso esibisce una netta ambivalenza[5]. Dirà difatti che dobbiamo all’acculturazione “il meglio di ciò che siamo diventati e buona parte di ciò che ci fa soffrire”[6]. Il costo dell’acculturazione è il disagio (Unbehagen), ovvero, per evitare gli orrori della violenza andiamo incontro al malessere psichico, che è in qualche modo una violenza contro sé stessi.

Giustamente Freud nega l’esistenza di un diritto internazionale, per la semplice ragione che il diritto è legato alla forza e al potere di uno stato, e allora come oggi non abbiamo un sovra-stato internazionale che sia in grado di costringere i singoli stati a rispettare certe regole. Questo vale per la Società delle Nazioni di allora come per l’ONU di oggi. Il diritto non è l’etica, il diritto è legato alla capacità di un apparato, chiamato stato, di far rispettare certe regole. Il concetto di diritto è inscindibile da quello di forza. Uno stato che non riuscisse a perseguire i criminali non sarebbe più uno stato, e potremmo dire che de facto quella nazione è priva di un diritto. Per questa ragione è scorretto dire che l’invasione russa dell’Ucraina nel 2022 è una violazione del diritto internazionale, per la semplice ragione che quest’ultimo non esiste. È piuttosto la violazione di accordi o convenzioni tra stati, il che è diverso.

Ma Freud è anche più radicale: per lui “le leggi vengono fatte da e per quelli che dominano (die Gesetze werden von und für die Herrschenden gemacht werden), concedendo ben pochi diritti a quelli che sono stati assoggettati”[7]. Freud non è affatto giusnaturalista, la sua visione del diritto ricorda più quella di Marx.

In sostanza qui Freud applica alla violenza – che metterà in relazione con la pulsione di morte – lo stesso ragionamento che aveva applicato alle pulsioni erotiche, alla sessualità. Per lui la sublimazione – le attività creative che escludono la soddisfazione sessuale – non è una barriera posta contro la sessualità, tutt’altro, è espressione della sessualità stessa a cui è stata cambiata la meta. Come la sublimazione è un aggiustamento sociosintonico della sessualità, analogamente il diritto è un aggiustamento sociosintonico della violenza. Sessualità e violenza sono insomma l’arché – principio, dominio – della vita civile o sociale in generale.

 

2.

Freud ricorda che sorgono conflitti violenti all’interno di una stessa comunità, esistono anche guerre civili. D’altra parte egli ammette che le guerre possono avere un effetto positivo, dato che esse possono portare al costituirsi di stati unitari e al loro interno pacificati – e qui cita il caso dell’impero romano e della Francia. Ora, qui Freud cade nel pregiudizio etnocentrico, nella misura in cui a Roma e alla Francia contrappone le conquiste dei Mongoli e dei Turchi, che secondo lui hanno arrecato solo calamità. Un paragone ingiusto. I Mongoli costituirono il più grande impero della storia (1206-1368) dopo quello britannico. La pax mongolica favorì sempre più scambi proficui tra l’Oriente e l’Occidente, la Cina che conobbe e descrisse Marco Polo nel XIII° secolo era dominata dal Gran Khan mongolo. La dinastia Yuan è ricordata come un momento fulgido della cultura cinese. Quanto ai Turchi, essi costituirono un impero che durò oltre quattro secoli e che ereditò gran parte della cultura araba.  

Freud precisa che le forze che tengono insieme una comunità sono “la coercizione violenta” e “i legami emotivi tra i suoi membri”, ovvero le identificazioni reciproche tra i suoi partecipanti. Qui evidentemente rimanda alla teoria già sviluppata in Psicologia delle masse e analisi dell’io[8] in cui descriveva una Masse, ovvero un gruppo catalizzato da un capo (Führer), un collettivo in senso lato politico, come lo sono la chiesa e l’esercito. Il passaggio dalla Masse alla Gemeinschaft, dalla folla politica alla comunità (a una società nazionale diremmo), è il fatto che in più agisce la coercizione violenta (Zwang der Gewalt). Freud però insinua che se vengono a mancare i legami emotivi, la coercizione violenta basterà per tenere unita una comunità. È un’idea alquanto estrema, in quanto ammette l’esistenza di società senza alcuna coesione sociale, tenute assieme solo da costrizioni, società dispotiche sotto uno stato di polizia. Non escludo che per un po’ possa esistere una società simile, ma non credo che possa durare: ogni comunità o società ha bisogno di un minimo di coesione sociale, ovvero di quei “legami emotivi” che fanno di una nazione una Masse, ovvero un’entità politica. (Anche regimi totalitari come il Terzo Reich nazista o l’URSS stalinista o la Cina maoista godevano di un consenso alquanto vasto. I più in Germania credevano nel nazismo come i più in URSS credevano nel bolscevismo. E in effetti, quando in URSS questo consenso è venuto a mancare, il sistema comunista è imploso.)        

In un certo senso, ogni società è essenzialmente “democratica”, anche se è retta da un faraone: se il potere costrittivo non gode di un certo consenso, non durerà a lungo. Lo abbiamo visto nell’URSS degli anni 1980. Per ragioni che tuttora ci sfuggono il regime ha perso rapidamente consenso e quindi ha spinto alcuni dirigenti a cavalcare il malcontento, prima Gorbachev e poi Eltsin.

D’altro canto Freud ammette anche, all’inverso, una società fondata puramente sui legami di identificazione tra i suoi membri, senza alcuna costrizione violenta: ma questa società mi appare non meno improbabile della prima. Sarebbe una società anarchica realizzata, un paradiso sociale. Quasi ogni società concreta è fatta sia di coesione emotiva tra i suoi membri sia di costrizione esterna, quel che conta è il dosaggio e il modo in cui si combinano.

Più avanti Freud dirà però che “tutto ciò che fa sorgere legami emotivi tra gli uomini deve agire contro la guerra”[9]. Anche qui c’è da dubitarne. Per legami emotivi intende essenzialmente le identificazioni, ovvero quel processo grazie a cui riconosciamo gli altri come concittadini, come “i nostri”. Ma Freud sembra non vedere che quell’eros identificativo che tiene insieme i gruppi sociali produce spontaneamente la sua ombra, il suo Altro, il nemico potenziale o attuale, contro cui la guerra sarà sempre possibile. È come in ogni sport agonistico: ci identifichiamo ai giocatori della nostra squadra, quella per cui tifiamo, ma detestiamo i giocatori della squadra avversa. Più si cementa l’unità di Noi, più si erge come suo doppio la minaccia di Loro. È quel che oggi si chiama costruzione del nemico.

Freud non sfrutta fino in fondo la sua stessa idea secondo cui impulso erotico e impulso distruttivo sono sempre mescolati fino a essere inscindibili: proprio nella misura in cui siamo sempre più ”patrioti”, più amiamo i nostri concittadini, più saremo bellicosi, ovvero tenderemo a diffidare delle altre patrie, degli altri collettivi amorosi. In fondo, le guerre sono conflitti tra insiemi amorosi. L’esaltazione patriottica ha sempre portato, prima o poi, a fare la guerra all’Altro. È quel che aveva colto Ennio Flaiano, quando scrisse “se i popoli si conoscessero meglio, si odierebbero di più”.

 

3.

Il punto essenziale è però questo: nella misura in cui per Freud la guerra può svolgere anche una funzione positiva, unificante, e nella misura in cui essa esprime una violenza che lui considera parte di una pulsione fondamentale, come allora giustificare il proprio pacifismo? Freud detesta la guerra, ma è possibile sostenere razionalmente, scientificamente, questo orrore per la guerra?
La sua risposta è: siamo pacifisti “perché non possiamo fare diversamente”. Ovvero, precisa, “siamo pacifisti perché dobbiamo esserlo su basi organiche”[10].

Le argomentazioni razionali del pacifismo sono quindi razionalizzazioni: non si ha orrore della guerra attraverso ragionamenti, ma “su base organica”. Questo enunciato ci sorprende. In che senso il pacifismo è un fatto organico? Freud userà lo stesso termine, “organico”, nel paragrafo successivo: ci sono basi organiche (organische Begründungen) al fatto che sono mutate le nostre esigenze etiche ed estetiche nella Kultur. Ma perché dire che questi mutamenti dovuti all’acculturazione hanno fondamenti organici?
Vuol dire che i cambiamenti delle idealità umane finiscono con l’avere un effetto organico, ovvero biologico?

Questo sembra smentire quel che Freud aveva detto e dirà, che l’acculturamento cambia il nostro assetto pulsionale: l’intelletto si rafforza e domina la vita pulsionale, e l’aggressività viene interiorizzata, nel senso che si volge dagli altri a sé stessi.
Perché allora il cambiamento di questo assetto risulta essere una necessità organica?

La verità è che l’organico per Freud non è qualcosa di perenne negli esseri umani e che nasce con loro, ma è esso stesso un prodotto della storia di ciascun individuo. L’acculturazione separa gli umani: alcuni restano “razze incolte e strati arretrati della popolazione” (unkultivierte Rassen unf zurückgebliebene Schichten), ovvero parti “non addomesticate” della popolazione, le quali, però – insinua Freud – si riproducono più rapidamente degli “acculturati”. Egli disponeva già dei dati secondo cui più si abbassa il livello economico e culturale di una massa, più questa è prolifica. Dobbiamo pensare che secondo Freud gli “incolti e arretrati” sono ancora disposti ad andare in guerra, perché il pacifismo è una conquista “organica”, qualcosa di somatizzato anche se inculcato dalla cultura.

Come si vede, Freud era molto lontano da un ottimismo social-democratico, insomma era politicamente scorrettissimo. Per lui le differenze di classe erano per certi versi anche differenze organiche (ma di organismi psichici, non fisici). Credo però che idee del genere, anche se nessuno osa più esprimerle così direttamente, siano alla base del pacifismo dell’intellighentzia di oggi: volere la pace a ogni costo – anche al costo della resa e dell’umiliazione – è percepito come una causa chic, propensione irreversibile di un’élite spirituale. Il pacifismo sarebbe la punta estrema dello sviluppo della civiltà, le guerre anche se sacrosante sono barbarie.

 

4.

Questa era la visione di Freud, cosa possiamo pensarne oggi noi?

Quel che Freud non coglie è il pacifismo come prodotto storico. Ovvero, prodotto dell’Illuminismo. Non è un caso che i progetti di pace perpetua nascano nel XVIII° secolo, con l’Illuminismo, famoso quello di Kant. Perché non prima?
Perché prima i grandi imperi che dall’Antichità sono giunti fino al XIX° secolo, come l’Impero austro-ungarico, erano dominati da un’aristocrazia guerriera, e spesso anche dal clero. I nobili erano i guerrieri, regni e imperi avevano una base militare (alcuni anche teologica). Negli ultimi due secoli le cose sono cambiate: la base delle moderne nazioni è “il terzo stato” come lo chiamavano in Francia, ovvero i produttori. Capitalisti e proletari, imprenditori e lavoratori, ma sempre produttori. Da qui il primato che ha assunto l’economia nelle società moderne, come criterio fondamentale della politica. Ora, società dominate dai produttori e non più dai guerrieri vagheggiano la pace perpetua. I produttori, di sinistra o di destra che siano, non sono interessati a combattere altri produttori, dato che il gioco che tutti vogliono giocare è quello win-win, tutti possono guadagnarci dalla produzione e scambio dei beni. Che la pace perpetua sia realizzata da una società liberal-democratica o da una socialista, comunque essa diventa una meta fondamentale della modernità. D‘altra parte però la società con egemonia dei produttori esige un esercito di popolo – maschile, poi anche femminile; si chiede a ogni cittadino di essere un guerriero, il che è chiedere troppo. Da una parte le società moderne sono pacifiste, dall’altra coinvolgono nella guerra l’intero popolo. Questo controsenso drammatizza il dibattito moderno su pace e guerra.

Quando dico che le società moderne dominate dai produttori sono pacifiste, non voglio affatto dire che esse siano pacifiche. Di fatto gli ultimi due secoli hanno visto le guerre più catastrofiche tra paesi produttori. Ma appunto, una cosa sono gli ideali, altra cosa è la realtà. Le guerre moderne tendono a presentarsi come l’ultima guerra, dopo di che ci sarà la pace perpetua. Si fa la guerra per fare la pace, il che è ovvio, ma questa è la contraddizione della narrazione moderna, sia essa liberal-democratica o socialista.

Il fatto che Freud e Einstein siano pacifisti non è dovuto allora a un’evoluzione della Kultur grazie a cui gli intellettuali aborrirebbero la guerra in quanto intellettuali. Filosofi e dotti del passato potevano essere anche guerrieri. Per esempio Descartes. Wittgenstein si arruolò volontario nell’esercito austro-ungarico nella 1° guerra mondiale. È che Freud e Einstein, in quanto considerati all’epoca massimi scienziati, appartenevano alla moderna nobiltà, la quale non è costituita da guerrieri o preti, ma da chi produce intellettualmente. In primis scienziati e tecnologi. Freud e Einstein non a caso discutono di pace perché viviamo in una Kultur dove i produttori culturali sono loro i nobili. Quello che Freud prende come un fatto “organico” è piuttosto un prodotto storico: la fine dell’egemonia millenaria dei guerrieri. Oggi i militari sono solo degli impiegati dello stato.

C’è un punto che oggi non possiamo accettare della visione di Freud, ed è la sua visione evoluzionista – nel senso di progressista – della storia umana. Una visione che era dominante alla sua epoca, ma che l’antropologia della seconda metà del XX° secolo ha dissolto. Freud parla di orde primitive, ovvero crede in quella che ancora si chiamava barbarie. La storia umana andrebbe dalla barbarie, cioè da aggregazioni umane senza leggi e senza regole, all’acculturazione attraverso la quale prevalgono un diritto e la rinuncia a impulsi primitivi. Oggi invece parliamo di qualsiasi società umana, anche la più tecnologicamente primitiva, come di una Kultur, ovvero di una cultura non più barbarica della nostra. Consideriamo oggi quello che Freud chiama qui stato originario (ursprüngliche Zustand) un mito, perché nessun gruppo umano che abbiamo potuto conoscere in secoli di esplorazione esaustiva del pianeta può essere considerato una società davvero primitiva, una “società originaria”. Non esistono società naturali – anche se questo non ci porta sempre a concludere che tutte le società, quindi, sono naturali. Ci sono società tecnologicamente molto arretrate, sì, ma nessun barbaro. Anche le società senza scrittura hanno regole – in particolare, ferree regole di parentela -, un diritto, modi di decisione collettiva. E soprattutto in ogni società umana si parla una lingua, e non esistono lingue più o meno primitive[11]. All’opposizione natura versus cultura – a cui corrisponderebbe l’opposizione barbarie versus civiltà – si è sostituita un’altra visione, secondo la quale ogni società, ogni cultura, dispiega la natura umana espletando le sue potenzialmente infinite variazioni e possibilità.

In questa ottica, non esiste un passaggio dalla violenza dei più forti alla violenza socializzata, diciamo piuttosto che la violenza è sempre socializzata. Contrariamente a quel che sembra pensare Freud, allora la guerra non sarebbe uno stadio primitivo dell’umanità, ma, per certi versi, proprio un prodotto maturo dell’acculturazione. Ovvero, più siamo civilizzati, più siamo bellicosi. Rispetto a una disordinata lotta tra bande, la guerra è qualcosa di altamente organizzato, anzi, è la pratica più gerarchizzata e disciplinata della società. Le forze armate sono fondate sull’obbedienza e sulla tecnologia più avanzata, sono la punta di diamante delle tecnoscienze.

Ciò non toglie che in certe fasi storiche – in particolare, in molte città-stato greche – l’esercito non era formato solo da specialisti, ma aveva una base democratica. Tra le poche cariche elettive in Atene c’era quella dei dieci strateghi, capi delle forze armate. Insomma, all’epoca il popolo sceglieva i propri generali. E l’esercito della polis era costituito in gran parte da opliti, armati di scudo e lancia, ovvero da gente comune, i maschi dai 18 ai 60 anni (Socrate era oplita). L’esercito era costituito dal popolo maschile in armi[12]. Colpisce inoltre che i filosofi antichi, che pure denunciavano tante cose della propria epoca, non abbiano mai scritto contro la guerra; questa era data come una necessità evidente.

 

5.

Per molti oggi, l’organizzazione degli eserciti è la forma più avanzata di società. È la concezione della società-caserma, come nella Prussia del XVIII° secolo. Alcune delle grandi svolte tecnologiche nella storia sono strettamente connesse alle strategie belliche. È il caso di internet, sistema inventato dall’esercito americano per assicurare le comunicazioni in caso di incursione nucleare sul paese. La guerra non è solo espressione di una violenza originaria – di un’aggressività intrinseca – dell’umanità, ma soprattutto della culturizzazione di questa violenza, non diversamente da quel che ha fatto il matrimonio nei confronti degli impulsi sessuali. Possiamo dire che la guerra – e non il conflitto fisico caotico – è il “matrimonio” della violenza. “Accoppiamoci!” – termine più che mai ambiguo. Possiamo dire che il matrimonio e la guerra nascono con Homo sapiens, o che Homo sapiens nasce con il matrimonio e la guerra?

Freud cita il caso dell’impero romano e della monarchia francese come di due nazioni fiorenti e unite[13]. Ma la supremazia, in certe epoche, di queste nazioni era strettamente connessa alla loro eccellenza militare. Questo è certamente vero per i Romani, capaci di costruire una macchina bellica – la falange – che si rivelò alquanto invincibile, e di edificare una marina che dominò per secoli nel Mediterraneo. Quanto al regno di Francia, è inscindibile dalla sua eccellenza militare, da Carlomagno a Napoleone. Oggi, l’egemonia della cultura anglo-americana è connessa non solo al primato economico prima dell’Inghilterra e poi degli Stati Uniti, ma anche alla potenza senza pari delle forze armate dei due paesi. La marina militare inglese dal XVII° al XIX° secolo costruì il più vasto impero mai visto.

L’idea che ci saranno sempre guerre è radicata nel presupposto che, in molti casi, la guerra sia il male minore. Combattere e sconfiggere Hitler costò decine di milioni di morti, ma in fondo tutti pensiamo che la guerra anti-nazista sia stata il male minore. Anche perché in questo modo abbiamo salvato la vita a milioni di Ebrei in Europa. Un paese può essere pacifico quanto vuole, ciò non gli impedirà, in certi casi, di essere lo stesso attaccato, come accadde, nella 2° guerra mondiale, a paesi che non volevano affatto la guerra come Danimarca, Norvegia, Finlandia, Paesi Bassi, Belgio, Albania, Grecia, ecc. I pacifisti deridono sempre il vecchio adagio Si vis pacem, para bellum, ma credo che esso non verrà mai superato. Paesi che da secoli non fanno guerra, più per loro fortuna che per loro scelta, come la Svizzera e la Svezia, hanno forti eserciti. Finché c’è la possibilità che in qualche parte del mondo covi un qualche sfrenato aggressore – sia Alessandro Magno o Attila, Gengis Khan o Hitler, Giulio Cesare o Napoleone o Putin – risulterà sempre più saggio preparare la guerra, insomma, cercare di dissuadere chi ha voglia di aggredirti. Talvolta, le verità sono terribilmente banali.

Malgrado tutto questo, guardiamo alla guerra con ripugnanza, come se essa desse libero corso a qualcosa di orrendo negli umani, qualcosa che sarebbe il caso di rimuovere – anche se la psicoanalisi diffida di ogni forma di rimozione: il godimento nell’uccidere, nell’infierire, nel distruggere, nel rischiare la propria vita per prevalere e dominare. Come abbiamo visto, Freud fa di questo orrore per la guerra un’idiosincrasia delle persone colte, qualcosa di “organico” indotto dall’acculturazione. La guerra risulta a costoro istintivamente oscena, anche se questo istinto deriva da una ristrutturazione psichica.

Ci sarebbe da chiedere però a Freud fino a che punto le idealità della Kultur – sia etiche che estetiche – non siano intrise esse stesse di vis polemica, ovvero di bellicosità. La rivalità tra correnti filosofiche, estetiche, politiche, anche psicoanalitiche, assume spesso la forma di vere e proprie guerre culturali, incruente certo ma sempre guerre. E in certi casi anche cruente: basti pensare alla cicuta di Socrate, allo scempio di Ipazia e al rogo di Giordano Bruno. Non a caso le grandi correnti artistiche del XX° secolo si sono auto-nominate attraverso una metafora militare: avanguardie.

 

6.

Ma è vero che la guerra con i suoi orrori sia uscita davvero dalle idealità estetiche della moderna Kultur?

Basterebbe ricordare gli inni dei futuristi italiani o di Gabriele D’Annunzio a “la bellezza della guerra”. Questa bellezza emerge non quando si cela l’orrore bellico, al contrario, quando si sfrutta abilmente il godimento dell’orrore.  Non a caso esiste un filone florido di film e video horror, e i film o racconti di guerra oggi sfruttano sempre più il fascino dell’horror.

In Italia sin dalla scuola media si iniziano ragazze e ragazzi a gustare il primo vero grande poema che segna l’inizio della letteratura occidentale: l’Iliade, che è tutta una storia di guerra. Dei bambini sono invitati a dilettarsi del modo in cui Achille strazia il corpo di Ettore. Come tutti sappiamo, la guerra ha ispirato molti dei massimi capolavori della letteratura e del teatro, oggi del cinema, occidentali e non. Si va dalla seconda parte dell’Eneide fino a Per chi suona la campana di Hemingway. La guerra ha ispirato capolavori del cinema come Aleksandr Nevskij di Eisenstein, Apocalypse Now di Coppola, Paths of Glory e Full Metal Jacket di Kubrick, fino a Kippur di Gitai e a 1917 di Mendes. Insomma, l’estetica della guerra è più che mai parte dell’acculturazione. Non importa che oggi la guerra non venga esaltata, anzi denunciata: la sua rappresentazione ci fa godere proprio per la sua inammissibilità. È come nella tragedia, dove il piacere catartico viene dal fatto che si suscitano i sentimenti mesti della pietà e dell’angoscia. I film che si vogliono pacifisti, nella misura in cui si compiacciono nel rappresentare gli orrori della guerra, fanno appello a un fascino ben poco pacifico della guerra.

Per secoli si è esaltato come momento fondamentale della formazione maschile “il battesimo del fuoco”, ovvero il confronto diretto con l’orrore della guerra. Riuscire a sopportare l’insopportabile – si pensava – era la miglior Bildung per un uomo, così come per gli studenti di medicina è fondamentale superare lo shock delle prime lezioni con dissezione dei cadaveri. Ora, l’estetica horror della guerra ha un valore simile per lo spettatore: è come se gli si dicesse “se riesci a gustare esteticamente orribili scene di guerra, allora sei una spettatrice di prima classe”. La tolleranza del disgusto della guerra è segno di una superiorità, ovvero di padronanza psichica, non diversamente da quella del chirurgo.

La pedagogia moderna tende a non celare ai bambini la visione dei momenti orridi della vita: l’assistere alla morte di persone e la vista del loro cadavere, la visione di scene erotiche o di violenza, della miseria e della fame. Pensiamo che solo se confrontiamo i piccoli al lato insopportabile della vita potremo poi aiutarli a sopportare decentemente la vita adulta.

Si dirà: una cosa è la rappresentazione artistica – mimesis, simulazione, la chiamava Aristotele – della guerra, altra cosa è vivere la guerra vera. Viverla, si dirà, non è mai piacevole. E invece la guerra è piacevole per molti. Sappiamo di guerrieri volontari che si arruolano in varie parti del mondo per partecipare alle guerre, spesso per ragioni ideologiche, ma molti sono prezzolati. Talvolta ragioni ideali e ragioni mercenarie (fare la guerra come un modo per guadagnarsi da vivere) si mescolano. La guerra in Ucraina vede l’intervento anche di queste milizie. E coloro che decidono oggi una carriera militare sicuramente sono attratti dalla guerra. Insomma, la guerra vera affascina molti, soprattutto maschi. E non è detto che questo fascino per la guerra sia tipico di persone di basso livello culturale, come sembra pensare Freud. Che Guevara, ad esempio, era un guerriero colto. Alcuni guerrieri erano anche grandi scrittori, da Giulio Cesare a Ernst Jünger, Antoine de Saint-Exupéry e Joseph Heller. E chi potrebbe mai negare che un eroe nazionale come Garibaldi fosse attratto profondamente dalla guerra? La guerra giusta deve essere anche gustosa, verrebbe da dire giustosa.

I film western cruenti o i film di arti marziali orientali attraggono in quanto sono duelli tra persone singole, non guerre; una guerra è un duello tra comunità. Il fascino della guerra dovrebbe interrogarci allora sul fascino delle armi e del conflitto fisico in generale. Anche in un tiro a segno si spara immaginariamente contro qualcuno. Dal duello alla guerra, si articola tutta la gamma dei piaceri dell’esser-contro.

 

7.

Che cosa spinge molti ad amare il conflitto armato e la guerra? (E sullo sfondo la domanda: perché la guerra, come del resto la caccia, piace molto di più agli uomini che alle donne?[14]) Ci sono più fattori.

Un fattore è la pulsione agonistica, come nello sport: il piacere di gareggiare e di superare l’altro. Nei primi giorni della guerra in Ucraina nel 2022, un ragazzo di 13 anni mi chiese “ma lei tifa per l’Ucraina o per la Russia?” La guerra è uno sport iperbolico, dove ne va non solo della vittoria o della sconfitta degli antagonisti, ma della loro vita stessa. Per molti secoli la società latina è stata focalizzata dalla passione per l’arte gladiatoria, una forma radicale di sport – e dovremmo chiederci: non c’è qualcosa di gladiatorio in ogni sport agonistico? Non a caso spesso il tifo sportivo prende in prestito forme e metafore belliche. Così, i potenti nella Roma antica creavano o finanziavano scuole di gladiatori per ingraziarsi le masse plebee – Cesare, ad esempio, organizzava questo tipo di scuole, e per questo era molto popolare nella plebe romana. Analogamente, molti uomini ambiziosi e potenti di oggi si guadagnano il favore delle masse proprio dirigendo squadre sportive, come Berlusconi. Va anche detto che le campagne elettorali sono vissute, da chi se ne appassiona, come qualcosa tra la guerra e lo sport agonistico.

Oltre a questa pulsione agonistica – che non può essere ridotta all’aggressività e tanto meno alla pulsione di morte – nella passione bellica c’è l’irascibilità. Ne La Repubblica di Platone si ammettono tre strati sociali – i governanti, i guerrieri, i lavoratori[15]. I guerrieri corrispondono alla parte irascibile dell’anima, e nella tradizione posteriore saranno i nobili, caratterizzati dal coraggio. Questa parte irascibile dell’anima diventa valor militare, qualcosa di socio-sintonico, nella misura in cui l’ira viene controllata e superata nell’αρετή, nella virtù guerriera. Il vero guerriero non deve essere arrabbiato, e soprattutto non deve odiare il nemico – calma e distacco lo abitano. Anzi, il guerriero è tanto più valoroso quanto più ammira il suo nemico, ogni vero guerriero sogna un avversario alla propria altezza. Questo lo si vede fino alla rappresentazione delle guerre più recenti. Film americani come Apocalypse Now e Full Metal Jacket mostrano un gran rispetto dei militari US per Charlie, i nemici vietnamiti. Il vero guerriero è fair col proprio nemico, come lo sportivo con il proprio avversario.

È questo il paradosso della virtus militare: che anche se, come tutti crediamo, essa ha origine nell’odio rabbioso per chi ci sbarra la soddisfazione, occorre in qualche modo sublimare questi sentimenti irascibili – non solo l’eros, anche l’aggressività si può sublimare. Occorre accedere a un non-odio e a una non-rabbia per essere veramente guerrieri, anche se odio e rabbia sono la fonte di ogni virtù guerriera.

Un altro elemento che mi pare costitutivo dell’arte della guerra è il gusto del pericolo. Quello che D’Annunzio aveva espresso interpretando MAS (motoscafo anti-sommergibile) come Memento Audere Semper. Certo questo gusto di affrontare il pericolo non è esclusivo del guerriero, ma è la molla di tanti altri sport: dell’alpinismo, dell’esplorazione in terre ignote, dell’astronautica, delle corse di F1, ecc. Anche in questo caso, l’unico modo per godere del pericolo è non avere paura del pericolo. Il godimento di temere per la propria vita diventa coraggio, ardimento, quando si cessa di temere per la propria vita. Se un alpinista ha paura, non può scalare più. Eppure è alpinista nella misura in cui deve superare una paura in background, una paura che si trasforma in godimento di superarla.

Ora, la pulsione agonistica, l’irascibilità e il gusto del pericolo sono affetti che anche un pacifista, fossero pure Einstein o Freud, può apprezzare e accettare. Anche il Mahatma Gandhi aveva senso agonistico (combattere gli inglesi) e forse gusto del pericolo. Una passione che il pacifista non potrà mai accettare nel guerriero è quindi una più profonda e inaccettabile: il godimento di ciò che c’è di più orrendo, del massacro dei corpi. Un godimento sadico che però viene anch’esso sublimato in quella che chiamerei la frigidità bellica.

Prima poemi romanzi e dipinti, poi film e video, ci fanno godere mostrandoci tutti gli orrori della guerra. Quando uscì Save the private Ryan (1998) di Spielberg, che descrive momenti dello sbarco in Normandia nel 1944 e di ciò che ne seguì, alcuni – tra cui Slavoj Žižek – protestarono dicendo che la rappresentazione così cruda della guerra faceva del tutto dimenticare i valori ideali della lotta contro il nazismo, per la libertà e la democrazia. Puoi decidere di arruolarti per ragioni ideali, ma nel fuoco di una battaglia non hai modo di tenerli sempre presenti: devi accettare il carattere inumano della guerra, anche se sei convinto di essere dalla parte giusta. Descriverei questo orrore come mancanza di αιδώς (aidos), con cui i Greci intendevano non solo il pudore, ma ogni forma di rispetto. L’aidos non è solo quello che ci imbarazza se andiamo in giro nudi, ma anche quello che ci imbarazza se dobbiamo brutalizzare qualcuno, foss’anche per buone ragioni. Che si tratti del sesso o della violenza, vediamo ergersi sempre aidos. Possiamo dire quindi che per chi non ama la guerra, questa risulta troppo spudorata.

Si dirà: per fare sesso ci si nasconde, mentre la violenza si esercita spesso pubblicamente, anzi, la si esibisce come atto glorioso. Ma anche il rapporto sessuale ha una valenza pubblica, socio-sintonica: una festa di matrimonio è in realtà una celebrazione del coito degli sposi, e in alcune culture la festa si conclude con la consumazione del matrimonio davanti a più testimoni. Il pudore del sesso si rovescia nel suo risvolto cerimoniale. Così come una battaglia, se la si vince, è un evento festoso, purché non la si guardi troppo da vicino. La descrizione dettagliata e precisa della violenza è l’equivalente aggressivo della pornografia – possiamo parlare in questo caso di ktenografia, della rappresentazione dell’ammazzare (da κτείνω, uccido). L’oscenità della pornografia non consiste certo nel fatto che i protagonisti copulino – questo atto è considerato non solo normale, lo si esalta – quanto nel fatto che l’atto sessuale è mostrato troppo ravvicinato e visibile. Analogamente, l’oscenità della ktenografia consiste nel mostrare lo scontro in modo troppo ravvicinato e visibile. In entrambi i casi c’è una carenza di aidos. Va bene votare un culto al grande guerriero, sia esso George Washington, Garibaldi, Giap, Che Guevara… purché non ci si faccia vedere com’è realmente la guerra!

Fare sesso e uccidere, ecco due estremi – amoroso e odioso – dell’attività umana, che proprio per questo tendono a non essere detti e rappresentati, anche se si muore dalla voglia di dirli e rappresentarli. Perciò oggi gli audiovisivi sempre più trasgrediscono ogni tabù rappresentativo, sempre più includono pornografia e ktenografia.

 

8.

La questione che si ponevano Einstein e Freud era se si potesse sperare, un giorno, in un superamento della guerra da parte dell’umanità. Della guerra, non dei conflitti armati. Anche se ci fosse uno stato planetario unico che avesse il monopolio della violenza legittima, questo non escluderebbe rivolte, secessioni, conflitti interni. La guerra americana contro l’Iraq nel 2003 durò ben poco, la vera guerra, per dir così, cominciò dopo in forma di guerra civile, con attentati, bombe, massacri, guerriglie. Anche in un mondo unificato sotto uno stesso stato, avremmo guerre asimmetriche, come si dice oggi.

Insomma, anche se la guerra guerreggiata tradizionale potesse scomparire, è molto improbabile che i conflitti cruenti spariscano. A meno che l’ingegneria genetica non elimini i supposti geni bellicosi, ammesso che esistano. Ma la pulsione bellica è stata fondamentale per la sopravvivenza di Homo sapiens nella misura in cui essa non ha generato solo guerra, ma quella che chiamerei la creatività polemica dell’umanità.  La competizione in tutti i campi – anche in quello religioso, filosofico, artistico – è stata la benzina dell’evoluzione del pensiero. La capacità di tollerare l’orrore ha condotto non solo a battaglie sanguinose, ma anche ad azioni e arti faste: la caccia nelle società primitive, la chirurgia, la cura medica, l’esplorazione. Il rischio di una bonifica eccessiva dei componenti dell’impulso guerresco (agonismo, irascibilità, disprezzo del pericolo, attrazione per l’orrendo) è di gettare il bambino con l’acqua sporca. Il bambino è la molla dell’inventività umana.

Insomma, il superamento finale dei conflitti cruenti è altamente improbabile. E forse nemmeno auspicabile. Il che non toglie che, sui tempi miopi delle nostre vite individuali, possiamo e dobbiamo batterci per la pace. Dopo tutto, la guerra è stata sempre un po’ l’ultima ratio dei conflitti, quel che possiamo fare è renderla sempre più ultima, sempre più rara. Asintoticamente rara. La guerra potrebbe non sparire ma diradarsi, come i numeri primi nella serie dei numeri naturali: man mano che si va avanti nella serie diventano sempre più rari. Ma ce ne saranno sempre alcuni. La differenza però è nel fatto che la vita della specie umana non è infinita, quindi non sarà nemmeno infinito il diradarsi delle guerre.

 

Pubblicato su “Aut Aut” n° 397,
marzo 2023, vol. LXIII, pp. 140-158

NOTE

 

[1]  S. Freud, “Perché la guerra?” (1932), Opere, Bollati Boringhieri, 11, pp. 287-303. “Warum Krieg?”, GW, 16, pp. 12-27.

[2] Nella traduzione italiana Bollati-Boringhieri è “incivilimento”. Ma Freud precisa che si tratta di Kultur, non di Zivilisation.

[3] Freud. Opere, 11, cit., p. 297. GW, 16, S. 19-20.

[4] Freud, Opere, 11, cit., p. 294. GW, 16, S. 15.

[5] Come aveva mostrato qualche anno prima pubblicando Das Unbehagen in der Kultur (“il disagio nella cultura”) in Opere, 10. GW, 14.

[6] Freud, Opere, 11. p. 302. GW, 16, S. 25.

[7] Freud, Opere, 11, p. 295. GW, 16, S. 16.

[8] Freud, Opere (1921), 9. GW, 12. Ho analizzato questo saggio in: S. Benvenuto, Soggetto e masse. La psicologia delle folle di Freud, Castelvecchi, 2021.

[9] Freud, Opere, 11, p. 300. GW, 16, S. 23.

[10] Wir sind Pazifisten, weil wir es aus organischen Gründen sein müssen”, GW, 16, S. 25. Opere, 11, p. 302.

[11] Da tempo la grammatica trasformazionale di Noam Chomsky ha mostrato che le lingue possono variare di molto nelle loro forme esteriori, ma che la struttura sintattica profonda è identica per ogni lingua.

[12] Anche se in Europa ci indigna il sostegno degli americani all’accesso incontrollato a ogni arma da fuoco, va detto che questo sostegno ha basi ideali profonde: nasce dall’idea che un popolo libero è un popolo armato, quando sa difendersi anche da solo, e non si affida completamente al proprio esercito. Idea non molto lontana dal concetto leninista di proletariato in armi.

[13] Opere, 11, p. 296.

[14] Nelle società primitive di cacciatori-raccoglitori, le donne raccolgono e gli uomini cacciano. Spesso anche gli uomini raccolgono, ma le donne non cacciano mai.

[15] Le società indo-europee tendono a strutturarsi secondo le tre funzioni: clero, guerrieri, lavoratori. La novità di Platone è di sostituire i filosofi al clero. Ma è importante che Platone non escluda affatto i guerrieri: anche la Repubblica perfetta va difesa.

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